L’orienteering nell’emergenza sanitaria

(3 aprile 2020)

In una dimensione alternativa chi scrive avrebbe appena pubblicato il reportage delle gare di Matera, raccontando di una due giorni corsa tra il fascino dei sassi lucani; la mattina si lamenterebbe nella calca del ritardo di qualche treno per Milano, sperando che il lavoro gli conceda di potersi ritagliare una corsetta la sera. Nella stessa dimensione i suoi quattro lettori starebbero preparando la successiva trasferta bergamasca, studiando qualche mappa simile o rammaricando gli errori della settimana prima. Gli organizzatori lucani starebbero valutando l’esito della loro manifestazione, mentre quelli dell’Agorosso fremerebbero nel limare gli ultimi dettagli. Questo accadrebbe in un altro mondo; nel nostro, purtroppo, tutte queste storie sono state spazzate via dalla Storia che, una volta ancora, si è presa l’attenzione generale con grande strepito e terrore e morte.

Nell’incedere terribile e implacabile della pandemia, l’orienteering è stato solo una vittima tra le tante, di certo tra le meno importanti. Quando si assiste al dolore di chi piange solitario i propri cari che soffrono e muoiono, altrettanto soli; quando la presenza di un altro essere umano, incrociato per caso, è vista come un pericolo per sé e i propri familiari; quando le giornate sono accompagnate ora dopo ora dal funebre suono delle sirene, cantrici di altro dolore e altra sofferenza; quando anche la speranza viene meno, ha francamente poco senso pensare con affetto al mondo di mappa e bussola; il rimpianto stesso delle arene gonfie di entusiasmo, delle sprint rapide come il vento, della sfida contro i boschi truci, tutto questo scorre via malinconico, vergognoso anzi di rimpiangere quello che è un gioco, quando altri piangono la morte, la rovina, la paura del futuro.

Nei primi giorni, quando la paura e la disperazione erano ancora compagne giovani, sono apparsi cartelli alle finestre che sostenevano, proponevano, auguravano che tutto sarebbe andato bene. Slancio ammirevole, ma pietose bugie restano: non va tutto bene e non andrà tutto bene. Se non ci saranno le cataste di morti delle grandi pestilenze del passato, il mondo comunque uscirà da questi giorni bui più desolato, povero, schiavo. Quante famiglie avranno perduto persone care o sofferto la malattia e l’ansia? Il tessuto economico stesso, già debole, sarà distrutto, flagellato, e non si conteranno nuove ansie e nuove pene. Le democrazie stesse potrebbero cadere, sfidate dai totalitarismi arroganti che in questi mesi truccando i numeri e forgiando un popolo schiavo usciranno più forti; quando non saranno esse stesse a mutare, avendo ormai covato l’invitabile tentazione e precedenti chiari per poteri assoluti. Quest’ultimo sarà l’esito più inevitabile e sottile della crisi, quello più trascurato all’inizio visto il debordare del giusto dolore provocato dagli altri due. Ma se le epidemie passano, le crisi si superano, quando la libertà cade ci vogliono secoli per ripristinarla.

In tutto questo sembra stupido ed egoista parlare di orienteering, rimpiangere le gare annullate, continuare a mantenere almeno la mente allenata. Può sembrarci inutile visto che la ripresa sarà lontana, forse anche egoista visto che confrontare questa mancanza con altre, ben più gravi, porta ad un’unica conclusione: lasciar perdere. Ma è bene ed è fondamentale continuare a sognare, anche in quest’ora cupa. L’essenza di essere un uomo muore quando la speranza firma la sua resa. Ed è bello sapere che tanti non si sono arresi. Chi può ricavarsi uno spazio per correre nel rispetto delle norme vigenti e, soprattutto della salute altrui, cerca ritmi che simulino almeno la normalità. Altri prendono un po’ di tempo per leggere le mappe delle vecchie gare, come musicisti che ascoltano concerti immaginari scorrendo gli spartiti. Altri ancora si dedicano agli allenamenti più strampalati, per mantenere il corpo in forma e affermare la propria volontà di non cedere allo sconforto.

È difficile dire se e quando potremo tornare sui campi gara, felici di riabbracciare, vedere e parlare con gli amici e rivali; quando potremo sentire il ticchettio dell’orologio che preannuncia la partenza, mentre la mente lotta con il cuore per mantenersi calmi; quando potremo gustare la comparsa della lanterna dopo una tratta difficile vinta e ben eseguita. Ma sarà bello pregustare questo futuro, ora che lo sconforto e la paura dominano emozioni e cervello. Quel giorno assaporeremo anche gli strafalcioni nel bosco perché sentiremo il nostro animo finalmente libero dalle costrizioni della quarantena, lieto nel silenzio tra gli alberi dove non si odono più le ambulanze e i pianti; quel giorno gusteremo anche gli scontri con altri atleti alle curve nelle sprint, dopo mesi di alienazione sociale, forse sorrideremo meno sdegnosi quando qualcuno ci chiederà se è una caccia la tesoro.

Quando l’emergenza sanitaria sarà finita e quelle economiche e politiche ne prenderanno il posto, ancora più feroci e lunghe, sarà bello se un po’ della mentalità orientistica si diffonderà oltre la microscopica nicchia dei suoi cultori. In un mondo divenuto improvvisamente oscuro, servirà pensare alla tratta migliore, calandola dalla figurazione teorica alla realtà; servirà valutare con occhio svelto e preciso le difficoltà e i pericoli di certe scelte; servirà la comprensione rapida dei tranelli e la capacità di rilocalizzarsi quando si è perduti. Ma servirà anche un altro aspetto, in genere deleterio per il nostro sport, fondato su persone con cv importanti e quindi disabituate ad ubbidire ciecamente. In un mondo che si sta abituando agli ordini assoluti e solitari, sarà cruciale il ruolo di chi si oppone con intelligenza, di chi non ha il timore di dire la propria in modo franco e deciso; coscienze critiche capaci di svegliare animi impauriti dalla pandemia e da ciò che ne seguirà, tanto da gettarsi nelle braccia di finti sorrisi e soluzioni facili.

Per questo è un conforto vedere, sapere che gli orientisti non hanno ancora abbandonato la speranza, per quanto ovviamente sia un momento dove il dolore, la paura e il pianto sono compagni inevitabili. Correre nel proprio giardino, sulle scale o nel garage dandosi obiettivi è un modo, però, per ricollocarsi in questo momento in cui vaghiamo sperduti in un bosco senza riferimenti; dedicarsi a progetti futuri, carte e disegni è la continuazione della nostra abitudine di arrivare al punto sapendo già come dovremo uscirne.

Chi scrive ha vissuto molte volte la situazione di vagare per minuti sperso, furioso e umiliato; arrivare al traguardo con la voglia di mollare tutto, salvo poi riprendere il giorno dopo gli allenamenti. Negli anni abbiamo visto concorrenti scivolare in tratte difficili, sbagliare ma proseguire a dare tutto sino alla fine, anche se la vittoria era ormai sfumata, anche se pochi avrebbero saputo e apprezzato. Tra poco verremo tutti chiamati ad una gara, quella della ripartenza, le cui condizioni ci faranno rimpiangere la pioggia fredda e grave di Millegrobbe, o la grandine feroce di Carpegna. Dovremo ricordare, allora, di quando siamo andati in partenza sotto il diluvio o abbiamo atteso il cambio impavidi. Allora eravamo un po’ infastiditi, ma felici di fare quello che più ci piaceva. Domani lo dovremo fare con lo stesso spirito in una prova diversa e più difficile. Ma lo faremo senza perdere l’entusiasmo che avevamo allora, o la voglia di ridere. Solo così potremo dire che davvero andrà tutto bene. (di Andrea Migliore)