La notturna di Venezia è una gara diversa da tutte le altre. All’apparenza è una semplice competizione di livello regionale, come cento simili che attribuiscono poca gloria a chi vince. È una competizione urbana, per di più: questo gioco nuovo che gli déi dell’orienteering, assisi sui loro troni nel fitto del bosco, sicuramente hanno in dispregio. Certo, la matassa dei vicoli è tanto attorcigliata e caotica, che il coefficiente di difficoltà si alza in modo esponenziale. Ma è una gara come molte altre, solo con un nome più altisonante, potrebbero dire molti. Anzi forse è anche peggio, perché espone a numerose seccature: intanto la si è già corsa mille volte, quali segreti possono rimanere? Secondo, è oltremodo cara, con tutti i balzelli che dal parcheggio in avanti sono posti a chi entra in Venezia; terzo, c’è sempre troppa gente nelle calli: disturbano la corsa e obbligano a slalom ingegnosi per evitare incidenti.
Poi esci dal centro sportivo che fa da ritrovo, accendi la pila frontale per fare luce nel buio della sera che è scesa. Ed è lì che ti ricredi. Quello scorcio lo hai già visto altre volte e pensi di non farci più caso: il canale fluisce placido sotto la tremula luce dei lampioni, il ponte lo taglia in obliquo sinuosamente arcuato, la calle successiva si stringe come ad abbracciarti. Un altro vicolo e sbuchi su un nuovo canale: anche qui la luce artificiale gioca sul pelo dell’acqua; nell’aria c’è un silenzio rotto solo brevemente, perché ogni suono pare ovattato in questo scenario. È in opera una magia, un fascino misterioso che dipinge ogni cosa di colori e forme che placano le tensioni, che fanno restare muti in contemplazione.
Descrivere un simile incanto richiede capacità particolari, le parole stesse vanno ponderate con attenzione, perché qui si deve entrare con il cappello in mano: si mischiano il sacro rispetto e l’ammirazione sconfinata. A Venezia puoi venire cento volte, conoscerne a memoria i passaggi e gli scorci, ma lei ti sorprende sempre; puoi dirti che questa volta sarà diversa, che la puoi dominare, ma lei sfugge sorniona alle etichette che cerchi di appiccicarle e, ogni volta, ti fa innamorare di nuovo. Gareggiare qui è un privilegio, che a competizione finita ti riempie di orgoglio e ammirazione, indipendentemente dal risultato. Qui si trasfigura l’essenza stessa della gara, perché il tempo si dilata di fronte a tanta bellezza.
Quest’anno l’edizione di Venotte si corre soprattutto oltre il Canal Grande, dietro alla vetrina più lucente di Piazza San Marco. Ma questa città è tanto strana ed enigmatica, che ogni singolo isolato si distingue dagli altri e continuamente mescola le carte in tavola. Brevi tratti tra vie larghe, dove la folla osserva stupita quei figuri che corrono a caso con una mappa, si mescolano a calli sottili, passaggi nascosti dove aleggia il mistero e ponti dalle fogge più strane. Poi arrivi in uno slargo e la magia cambia tono, pur senza perdere la sua caleidoscopica abilità di dare sensazioni diverse. Ora è un piccolo campiello, avvolto in un silenzio molto intimo, qualche albero e una fontanella in parte. Ora è un campo solenne, in cui troneggia una chiesa dalla facciata orgogliosa, da cui non ci si stupirebbe di veder uscire i signori del passato glorioso di questa città che, contro avversari formidabili, seppe farsi impero.
Il tempo di gara è solo una variabile tra tante a Venezia, perché, mentre si corre lì, si viene travolti da un incantesimo di meraviglia che annulla molti dei pensieri abituali. Potresti restare lì per sempre, tratta dopo tratta, semplicemente a contare le vie per svoltare, a superare d’un getto i ponti, a zigzagare tra i vicoli, cercando ansiosamente il nuovo punto di ricollocamento per capire di non essere perduti; potresti restare lì per sempre e non stancartene mai. La fatica man mano aumenta, come è ovvio, ma anche lei resta rispettosamente alla finestra: all’ennesimo ponte inizia a chiedere il conto, ma oggi si è quasi tristi di chiudere la gara, perché vorrebbe dire rinunciare alla sua magia.
Non esistono tratte semplici a Venezia, tranne forse quella tra la cento e finish. Qui ogni punto va conquistato con il dovuto tributo di fatica, dimostrando che l’intelligenza è una dote importante. Anche le tratte più corte impongono di percorrere un arabesco tra le calli che pare una danza misteriosa e bellissima. Si entra in una dimensione tutta particolare, dove si deve svoltare a destra, alle volte, per andare a sinistra o compiere giri complicati per superare un canale anche piccolo. Le tratte lunghe, poi, aprono tante e tali opzioni che diventa quasi difficile incontrare gli altri partecipanti. Ognuno si cala nella sua piccola bolla, immerso nel suo incantesimo; è quasi un sacrilegio incontrare altri atleti, superarli o essere superati, perché si è quasi gelosi nel sapere che Venezia offre la sua magia ad altri. Tutt’al più ci si incrocia scambiandosi un cenno di mutua ammirazione verso questa città che offre la sua splendida matassa di vicoli ad una prova, in cui ognuno misura le sue possibilità, fallisce o ha successo nel sapersi tirare fuori da quel garbuglio. E, per una volta, ha minore importanza farcela in meno o più tempo di altri.