Grande orienteering sotto le rocche di pietra del San Pellegrino

Dopo la pausa estiva ritorna l’orienteering nazionale, ma in un clima tutt’altro che estivo. Il passo San Pellegrino, che ospita i campionati italiani staffetta e long, si presenta infatti reduce da una nevicata molto prematura a metà settembre. La neve sparisce in tempo per le gare, ma la temperatura è decisamente più bassa rispetto alle massime estive.

Il contorno alle gare è di una bellezza sconvolgente. Le montagne si affollano attorno al passo, rocciose e imponenti, severi spettatori che richiedono arene di altissimo livello e prestazioni degne della loro maestà. Di sicuro non sono state deluse, perché l’arena ha messo in campo un terreno che definire insidioso è mancargli di rispetto.

Si parte il sabato con la gara a staffetta, che si disputa nella parte più bassa della carta, attorno alla strada carrabile. Pronti via e subito il guado di un torrente obbliga ai primi equilibrismi, tra le rocce scivolose e la corrente che non lesina in portata. Il primo tratto, come consueto in una staffetta, scorre via veloce, ma appena lasciati i prati meno cattivi attorno al ritrovo, il bosco si fa subito arcigno e lento. Le forme del terreno si arricciano in mille ghirigori che confondono e disorientano. Seguono le sponde di un laghetto che ingannano sul seguito della gara: il sentiero è ameno, dedicato ad una passeggiata per le famiglie di pianura. Pochi metri e subito questa illusione viene spazzata via con ferocia. La selva si fa oscura, aspra, selvaggia; il fondo stesso si fa insidioso, rendendo difficile e perigliosa la corsa o, meglio, l’avanzata perché non tutti qui riescono a correre davvero. Un loop vietato ai deboli di cuore, e si torna al laghetto, ma la pace è di brevissima durata. I punti successivi scorrono lievi come difficoltà, ma per rischio infortuni aspri. Continuamente il piede viene piegato in modo innaturale; ovunque buche e fosse tendono tranelli alle caviglie, mentre il bosco pare irridere quei goffi figuri che, un po’ nelle retrovie, annaspano e caracollano di zolla in zolla.

Si torna verso il ritrovo e subito si spalanca una salita diritta, che taglia le forze rimaste. Ora che si fatica sulla china, il prato torna gentile, come a deridere chi non riesce a correre neppure qui. Il loop finale va fatto col cuore in gola, perché si torna tra i ghirigori del bosco e un errore da minuti qui pare un tradimento verso il compagno che, più in basso, aspetta ansioso. È il crudo gioco della staffetta: ogni incespicamento, ogni sbavatura, ogni istante perso, viene messo a debito dei compagni, che dovranno pagare del loro per porvi rimedio.

Ragazze Besanesi d'oro: Federica Maggioni, Federica Negri e Maria Chiara Crippa trionfano in W35 contro un parco avversari di altissimo profilo.
Sotto lo sguardo delle montagne, Luigi Giuliani inizia la sua fatica nell'estenuante gara long del Passo San Pellegrino.

La gara del sabato, però, è stato solo un pallido antipasto del giorno successivo, perché per i campionati long ogni ostacolo viene moltiplicato e inasprito. Già la processione verso la partenza ha un suo costo, perché si sale su una lunga china che lentamente succhia le prime energie, piccole stille che più avanti verranno rimpiante amaramente. Gli organizzatori, burloni, hanno deciso di far partire appena dietro un piccolo crinale, per celare la vista di quello che sarà. È difficile dire se sia stato buon cuore il loro, oppure sadico dispetto perché, quando il via viene dato e si supera il velo che la montagna ha pietosamente posto, dietro compare quello che l’abilità di ognuno può descrivere come un sogno o un incubo.

Il terreno si arrampica, sotto le rocche di pietra, arricciandosi in un dedalo di contorcimenti, sassosi all’inverosimile e, per il resto, colmi di zolle infide e difficoltose. Gli atleti zampettano tra le onnipresenti sassaie e i ghirigori del terreno, inghiottiti dall’ansia. Gli occhi scrutano le microforme cercando di discernere un qualche appiglio. Disperati ci si aggrappa ad un crinale un po’ più pronunciato o ad un masso particolarmente grosso, le dita scorrono frenetiche sulla mappa tentando di stabilire un piano, esile come una zattera nel più furibondo fortunale. In basso il terreno traditore chiama la sua quota di infortuni e distrae, con la sua asprezza, dall’occupazione più immediata di trovare le lanterne. Ovunque sono bestemmie e imprecazioni, che tra i vari dialetti si mescolano in una babele di disperazione.

Lentamente, un punto dopo l’altro, si esce da quel coacervo di massi. Si entra nel bianco finalmente pensano tutti: il bosco è un po’ casa nostra, che potrà accadere ancora? Accade che la selva si arriccia ancora di più, scavando buche profonde, confondendo e disperdendo i più sventurati. Il gioco non si fa meno difficile, anzi si esaspera ancora di più. Altri sforzi e imprecazioni e si esce pure da lì. Adesso, lo sguardo si allarga, le montagne svettano maestose su un grande terreno aperto. Ed ecco che la long si prende il suo spazietto, in questa gara che pare una lunga assurda estenuante middle. Con la long compaiono i dislivelli, mai pietosi, le tratte lunghe che ti si appiccicano con il loro estenuante andare: vedi il tempo ticchettare e il punto è sempre lontano. Le difficoltà, però, si stemperano: pare andare meglio ora, ma ancora una volta è solo una pia illusione. Il bosco deve metterci la sua parte, ancora più feroce, come se sadicamente trovasse gusto a malmenare i concorrenti con le gambe e la mente in croce. Quest’ultimo passaggio ha una disumanità inenarrabile, tanto si inaspriscono i contorcimenti del terreno e ogni riferimento viene spazzato via senza pietà. Chi esce anche da qui affronta l’ultima parte, finalmente un po’ più filante e meno feroce, per quanto le energie siano davvero al lumicino e non resta più nulla a cui appigliarsi.

Sì, le montagne, regali spettatrici attorno all’arena, devono essere state soddisfatte dello spettacolo offerto.

La piccolezza degli atleti in confronto alla natura: tra i contorcimenti del terreno piccole formiche si muovono schiacciate dalle difficoltà del terreno.