È l’alto corso del Piave ad ospitare, quest’anno, le finali di Coppa Italia. Il fiume, come vuole la famosa canzone, scorre calmo e placido in una valle larga, circondata da versanti ripidi, ma tutto sommato poco mossa. Solo qua e là si alzano piccole colline, su una delle quali sorge Mel, il borgo che ospita la gara veloce del sabato. La piazza al centro ha un aspetto elegante, che nobilita un paese per il resto dominato da basse e tranquille case di provincia. Nei boschetti che lo circondano, si percepisce una vegetazione fitta e tenace, che lascia qualche preoccupazione per la gara della domenica, presto scossa dalla vista delle case che induce a concentrarsi soltanto sulla prova veloce tra le vie del paese.
La gara sprint ha un profilo perfettamente in linea con il tono da piccolo borgo di provincia: è una prova tradizionalista, senza gli eccessi di vie aggrovigliate o sovrabbondanza di barriere artificiali. È tracciata in maniera severa, senza virtuosismi inutili o infidi tranelli. Richiamando le consuete abitudini la si può indovinare; prima regola: chi corre più veloce, vince; seconda regola: il colpo d’occhio è fondamentale, ma l’errore si paga in secondi non in minuti. Non si presta a tecnicismi esasperati, ma non mette in mostra eccessive cattiverie.
Il punto spettacolo con il passaggio per la piazza dell’arrivo divide nettamente la prova in due parti, il cui filo conduttore resta quello di correre forte, ma molto diverse per caratteristiche tecniche. La prima parte è un susseguirsi frenetico di punti ravvicinati, in cui la corsa è continuamente inframmezzata dalle svolte e dai cambi di direzione. I punti sono disseminati in ogni dove, come se si fosse in un campo dopo la semina. I concorrenti sprintano tra i piccoli parchi e le case antiche, un occhio sempre fisso alla mappa per evitare anche il più piccolo errore di lettura. L’esecuzione è quasi banale, le trappole appena accennate, ma il rischio di farsi prendere dalla frenesia e convergere sul punto errato è un rischio per tutti.
Poi, dopo il passaggio nella piazza centrale, lo scenario cambia completamente. Le tratte si fanno lunghe, le scelte complicate, i tranelli insidiosi. Nulla che un occhio allenato non possa prevedere, ma il prezzo per un errore si paga in metri e metri di dislivello gratuito, che infieriscono su gambe affaticate. Le rampe si fanno via via più erte, obbligando molti concorrenti a cedere all’eresia più nera nel mondo delle sprint: camminare. Il finale torna al canovaccio semplice e veloce della prima fase, ma anche qui la sovrabbondanza di punti può punire senza pietà: ed è molto più complesso ora che la fatica è tanta e la mente inizia a cedere.
La middle si corre invece sulle sponde del Piave, nel terreno che il fiume decennio dopo decennio ha plasmato con il suo passare lento. Ciò che invece non è placido per niente è il bosco che lo circonda. L’ansa del Piave è ricoperta da una landa di boschetti fitti e implacabili, inframmezzati ora da piccole radure ora da spazi di semiaperti aggrovigliati e confusi. La partenza in un vasto prato illude quasi: pare che basti orientarsi tra la fitta rete di sentieri per uscirne vittoriosi. Certo, il bosco attorno stringe implacabile, ma tu sei sul sentiero e lui è fuori e lì non può far danno. Uno-due punti, in questo modo, danno un leggero abbrivio, anche alle menti più pessimiste, ma la gara spegne molto in fretta questi pensieri confortanti. Presto la bella rete di sentieri scompare e ci si deve far inghiottire dall’amara selva che sinora aveva inquietato, ma che era stata evitata. Il terreno piatto, che aveva permesso di correre svelti, non offre alcun supporto. Non ci sono le belle curve di livello un tempo fedeli compagne delle tratte più lunghe, non ci sono avvallamenti o doline o nasi che offrano il loro cortese soccorso nell’errore. Intorno solo tratti più o meno fitti di boscaglia, radure piccole e pietraie, tutti particolari numerosi come le stelle in cielo, tanto che negano sostegni saldi. Le felci e i rami schiaffeggiano i concorrenti che zompettano da un semiaperto all’altro, il terreno piatto induce a correre, salvo poi deridere la tua foga quando un sentiero, comparso ora che non serve più, ti mostra di essere ben oltre il punto desiderato. Le lanterne appaiono come bellezze fatate. Le si scorge, d’un tratto, e si è avvinti da molta gioia. Poi sovviene l’atavico dubbio, perché troppa fortuna è sempre sospetta alle mente degli uomini: sarà davvero il mio punto? O è solo un ingannevole miraggio che, una volta svanito, lascerà soltanto nuovo affanno e sconforto? Si consulta compulsivamente la descrizione punti, il cuore che palpita avvicinandosi al punto come quello di timorosi amanti. Se il numero corrisponde, la felicità bippa la dolce musica del punto trovato e vidimato. Ma è solo un piccolo passo prima del traguardo.
Così nel bosco si compongono e si disfano alleanze. Accordi sono intessuti quasi senza parole, treni si formano per superare qualche tratto ostico, e poi sono scomposti non appena le rudezze del terreno o le forze residue cedono d’un tratto. Nella selva quando si è soli il dubbio monta più feroce, mentre in compagnia i disagi dell’errore vengono condivisi e ci si ritiene meno infelici quando visi, dubbiosi come il tuo, sono preda dello sconforto e bestemmie sono mormorate a mezza bocca da una vittima par tuo.
Il finale torna più gentile, ma è solo un piccolo allentamento di cattiveria, perché il bosco resta fitto e infido e solo lo scatto finale lungo l’area del tiro a volo di Mel offre la libertà di correre sicuri, senza dover esitare ogni istante, verso un traguardo chiaro e definito.