Fatica e caldo nel weekend di gare in bosco a Schia

Dopo la due giorni di sprint a Comacchio, il secondo weekend delle gare nazionali è dedicato alle prove in bosco, ma si resta in Emilia-Romagna. Schia è un piccolo agglomerato di case sull’Appennino Parmense; un tempo era una stazione sciistica di media grandezza, oggi, però, con i cambiamenti climatici è in mesto declino. Perlomeno l’assenza di neve ha liberato il posto per un’adeguata arena per l’orientamento, dato che i versanti del monte Caio nascondono difficoltà tecniche e, soprattutto, fisiche in abbondanza per una due giorni interessante.

C’è il sole, anzi un caldo innaturale per essere a metà aprile; ma, considerando come era andata l’ultima volta che si era corso sull’Appennino, è una buona notizia. Per chi è arrivato a Schia in condizioni fisiche precarie, però, è anche l’unica notizia buona. Il terreno, infatti, per quanto non impossibile tecnicamente si dimostra fin da subito molto ostico ed esigente. Già prima del via bisogna sudare: siccome siamo su piste da sci, gli organizzatori hanno pensato di farne risalire una per andare in partenza. Scelta condivisibile (meno dislivello per dopo) ma di certo importuna per chi ha le energie contate. Il sole di un aprile caldissimo batte i concorrenti che annaspano verso lo start; giusto qualche campioncino azzarda passi di corsa, per gli altri è già notte fonda.

Va detto che la middle del sabato viene via filante, senza difficoltà eccessive, tanto che pare quasi sospetta. I prati non sono proprio all’inglese, ma è un piacere correre sull’erba non ancora troppo cresciuta; il bosco stesso se non gentile appare neutrale, non eccedendo in difficoltà cattive: qua e là è un po’ sporco, ma nel complesso si procede spediti. Solo i ruscelli riservano sorprese agli orientisti meno attenti: nel tempo hanno scavato vere e proprie trincee, scoscese e infide, che obbligano a dislivello ulteriore se li si affronta nel punto sbagliato. Se le difficoltà tecniche sono, però, modeste, non lo è il dislivello. Si corre su piste da sci, quindi le rampe non possono essere mai gentili, inferiscono anzi crudeli quando la fatica si fa già sentire. Le rive da superare sono anche corte in verità, ma sembrano dei veri e propri muri alle volte, che, continui, spezzano la resistenza metro dopo metro, lasciando i meno preparati in debito di ossigeno e con minore capacità di ragionamento.

Francesco Magenes all'arrivo nell'arena di Schia.

Il canovaccio delle rive erte e dei ruscelli incassati in veri e propri canaloni resta invariato nella long di domenica, assieme alla strada ripida per andare in partenza. Anzi questa, se possibile, si incattivisce ancora di più. Illude gli ingenui la prima metà completamente pianeggiante, e sgomenta quelli più accorti; infatti, la pacchia dura molto poco e la seconda parte si dipana su una china che se era una pista da sci, era dedicata ai più spericolati. Il sole picchia feroce mentre il corteo degli orientisti sbuffa sull’erto avvicinamento. Anziani e bambini, campioni e comparse, tutti sono obbligati a questo prologo feroce, che spreme le energie ancora prima di partire; guai a chi si è mosso in ritardo e deve pure affrettarsi: quando arriva sul crinale della partenza è già probabilmente in uno stato di spossamento che per diversi punti gli peserà sulle spalle. Questo perché la gara è tutt’altro che riposante. I primi punti si corrono in costa e non è affatto una buona notizia: il bosco pare decisamente più sporco del giorno prima e si aggroviglia in una matassa di forme che confondono e fanno perdere dislivello come niente. Correre è uno sforzo doppio oggi: da un lato si deve lottare contro il sottobosco che si avviluppa insidioso, dall’altra bisogna risalire chine brevi ma secche, tali da succhiarti le energie come vampiri. Un piccolo errore di rotta porta in un dedalo di canaloni, che obbligano a valutare bene se e come guadare.

La long ha il pregio di mettere a nudo le incertezze in maniera più sottile della middle. Quest’ultima viene corsa con il peso del tempo che ticchetta più imperioso, perché i secondi stessi hanno importanza estrema sulle prove più corte; però l’errore viene svelato subito, senza ritardi: o compare la lanterna nel giro di uno due minuti o devi rapidamente ricalcolare la posizione; si procede svelti, con verifiche continue, che spietatamente ti rimandano o ti promuovono come maestri severi. Nella long lo scenario è diverso: le tratte si allungano, il tempo pare dilatarsi, mentre superi boschi e radure. L’errore ti accompagna per molto tempo, celandosi sornione nell’illusione di essere nel giusto. La fatica stessa è una compagna più stretta: si annida assieme al dubbio di aver compiuto la scelta sbagliata. Nella middle hai conferme ravvicinate: che sia disastro o trionfo lo vedi ogni due-tre minuti e questo ti può anche dare morale. La long ha l’animo di uno scommettitore, che tenta e non sa se avrà successo. Cerchi i riferimenti per avere una conferma, ma senza il codice della lanterna è tutto più labile, insicuro; è una prova aliena all’ansia contemporanea di avere tutto sotto controllo: qui ci si deve fidare dapprima di sé stessi e non è una scommessa che tutti sanno o possono fare.

Tratta dopo tratta il bosco non demorde nella sua cattiveria, restando scosceso e infido. Nella sporcizia del sottobosco, sono celate mille trappole: ora un rametto per inciampare, ora tronchi da scavalcare, ora improvvise buche che ti rallentano la corsa, ti distraggono dal tenere la rotta e non sbagliare. Il dislivello continua a picchiare feroce, non lasciandoti mai respiro: i forti procedono stoici, divorando rive e discese ripide, ma che giornata c’è per i deboli? La solita: si annaspa nel verde uno cercando di tenere la barra dritta, si procede a tentoni, metro dopo metro, cercando di non mollare.

Pietro Maggioni all'arrivo dopo le dure gare di Schia.