Torna, dopo un’edizione annullata causa pandemia, la tre giorni del Primiero, ormai grande classica delle multidays dell’estate italiana. Ancora una volta assoluti protagonisti sono i panorami, con la meraviglia delle Dolomiti, le grandi cattedrali di pietra. Ancora una volta si può solo immaginare lo stupore dei tanti stranieri, alcuni giunti dall’altra parte del mondo, di fronte a tanta bellezza, contando che le montagne sono soltanto un piccolo pezzo del campionario di splendore che offre l’Italia. Ancora una volta si può correre su terreni che, è bello crederci, faranno parte di quelle mappe su cui gli orientisti buoni potranno correre dopo la morte.
Si inizia dalla Val Venegia, luogo che rifulge per bellezza in una terra dove è difficile spiccare in meraviglia. Gli orientisti sono accolti da una leggera pioggia, che fortunatamente non cresce troppo di intensità, ma ha il difetto di offuscare lo splendido sipario della gara. Tra la foschia che a tratti cresce, a tratti si ritira, si scorgono appena le affilate pareti montuose che troneggiano da millenni, nei giorni di bel tempo e in quelli brutti, su questa valle di meraviglia. Si percepisce poco più in là gorgheggiare il torrente dalle acque cristalline, che serpeggiando attraversa i pascoli verdissimi. La pioggia è diventata una fedele compagna quest’anno, e andare in partenza ben coperti è quasi un piacere in confronto al gran caldo che monta giù nella pianura, quindi nessuno si tira indietro, anche quando gli scrosci diventano più forti. Lo spettacolo dopo il via è tale da mozzare il fiato. Il terreno pare quasi un tappeto, increspato di microforme, piccoli torrenti e irregolarità, ma è così morbido e bello che è un piacere correrci sopra. Intendiamoci, si tratta di una mappa molto tecnica, dove piccole deviazioni si pagano con gli interessi e si deve sempre essere sul pezzo, ma la Val Venegia è quanto più simile ad una fiaba ci possa essere nel mondo dell’orienteering. Ogni forma pare arrotondata, morbida e piena di meraviglia; fiumi, sentieri e radure si mischiano in un caleidoscopio di colori tanto che pare una foresta incantata. Certo le fiabe, quelle vere, sono spietate e non concedono un grammo di pietà: così anche qui trova posto la paura ancestrale di deviare leggermente dalla direzione, peccato contro la bussola che il bosco punisce senza pietà; poi d’un tratto la foresta fa un incanto ed ecco un errore parallelo che ti strappa la gara perfetta dalle mani e ne fa brandelli. L’orientista incauto o impreciso viene rieducato con sonore legnate che il bosco rifila ad ogni errore, ma il tutto avviene in un contesto di meraviglia che la cupezza della giornata di pioggia non riesce a togliere. È tutto un sovrabbondare di particolari, dalle forme che irretiscono e confondono, ai sentieri che zigzagano insidiosi, fino ai torrenti piccoli e grandi che obbligano a continui guadi. Fedele al suo nome, questa valle di alta quota cerca di disegnare le sue paludi e i suoi corsi d’acqua in una piccola Venezia di bosco, ma si dimentica di inserire ponti e calli, così in un attimo le scarpe sono zuppe d’acqua e lo sciaf sciaf della corsa nell’umidità accompagna sino alla fine. Ma la bellezza della gara e la gioia di correre al fresco, dopo e prima di altri giorni di calura, sono tali che tutti dopo il primo passo si sono già dimenticati del piccolo disagio.
Il giorno seguente si cambia completamente paesaggio e stile di gara. Dall’intimo e fatato bosco della Val Venegia si passa alla maestosa arena del Colle Margherita. A oltre 2500 metri, oltre un ripido sperone roccioso, gli orientisti sono condotti in un teatro che è difficile descrivere a parole, perché non sembra neppure adatto ai mortali. Tutto intorno una vista circolare di montagne così numerose e belle da togliere il fiato; cima dopo cima si spazia attorno su un sipario che neppure i sogni più arditi di un grande artista avrebbero potuto concepire: ovunque si scorgono pareti a picco, ghiacciai millenari, valli profonde e cariche di storia. Poi lo sguardo si posa sul terreno di gara e meraviglia si aggiunge a meraviglia: è una distesa immensa di forme mutevoli e rocciose, un attorcigliato panorama di roccia ed erba. Pare che solo agli dèi possa essere concesso di correre qui. Il fiato è mozzato mentre si sale verso la partenza, in parte è per l’alta quota, ma in parte è anche per lo stupore di essere di fronte a tanta bellezza. Poi superi il primo cancello e ti viene mostrata la mappa su cui ogni atleta andrà a cimentarsi. La prima reazione è incredulità mista a sgomento: davvero quel ghirigoro che ti mettono davanti è la mappa? Davvero si pretende che tu possa trovare dieci-venti punti in quel guazzabuglio di massi e scogliere e forme sconnesse e sconclusionate? Deve essere il disegno di un pazzo o di un bambino che, mentre colorava di giallo il foglio, ha macchiato ovunque con l’inchiostro. Poi avanzi ancora e ti rendi conto che quella è davvero la mappa. Non puoi fare altro che partire e ti trovi, circondato da altri orientisti, in un paesaggio lunare, che degrada leggermente per non darti neppure il conforto di forme nette e chiare. Come i cartografi non siano impazziti a riportare le migliaia di ammassi rocciosi, che ovunque dominano incontrastati, è un mistero, così in assenza di punti di riferimento ti appigli alla bussola come se fosse una reliquia santa. Il terreno stesso è insidioso e ostile, intessuto di zolle e sassi, buche e pietraie, tanto che ogni metro va conquistato con molto sudore. A stento prosegui, consultando freneticamente l’ago magnetico; attorno a te non perdi di vista le altre persone, cerchi in loro un cenno, un gesto che possa rivelare il posizionamento di una lanterna. Quando appare, quel piccolo pezzo di stoffa sembra essere il grande amore della tua vita, e solo gioia per un attimo ti conquista. Ma è solo il primo punto di dieci venti trenta e, così, il crudele gioco di ricerca inizia ancora, spietato ti accompagna fino al traguardo, in un canovaccio senza variazioni che non ti lascia mai respiro. Solo, ogni tanto, se si leva il capo dal labirinto del colle Margherita e si guarda un po’ attorno si scorgono le montagne, implacabili e maestosi osservatori della piccolezza umana, e sia tu lanciato verso la vittoria o stia semplicemente caracollando di errore in errore, è impossibile non reprimere un sospiro di fronte a tanta bellezza.
Il terzo giorno si cambia ancora scenario, spostandosi al Passo Rolle, lato laghetti di Colbricon. Apparentemente si torna in un bosco più tradizionale, con qualche semiaperto e piste da sci, ma per il resto classico terreno alpino a prima vista. Ma fin dal primo punto ci si accorge che è stata solo illusione. Dopo il bosco fatato della Val Venegia e il terreno da gioco degli dèi del colle Margherita, qui si corre in una specie di ring diabolico, dove di fronte a te il bosco infila i suoi guantoni e ti guarda truce, dichiarando che ti spezzerà in due. Ogni singolo centimetro di terreno cela insidie, siano zolle irregolari, siano pietraie, siano masse di alberi abbattuti e rametti vari che ostacolano la corsa e, a tratti, il passo. E per il resto è confusione assoluta, un guazzabuglio di forme e particolari che rende difficile comprendere la successione dei vari punti di riferimento. L’asprezza del terreno rende poi ancora più complesso procedere sicuri, perché continuamente ci sono ostacoli, tronchi o semplicemente rive scoscese, che devono essere superati e facilmente inducono all’errore. Quando si entra nel bosco è come finire in un vicolo sotto le spranghe di un nugolo di picchiatori, perché è questo che la selva fa dal primo all’ultimo metro, massacrando i malcapitati orientisti zolla dopo zolla, tronco dopo tronco. Si esce dalla foresta quasi intontiti da tanta furia selvaggia, così che l’ultimo tratto aperto e non privo di difficoltà per la corsa è superato quasi in trance. Il traguardo è una liberazione, perché oggi è stato difficile oltremodo condurre la gara come si voleva senza essere messi al tappeto dal bosco. Ma, allo stesso tempo, è anche fonte di tristezza, perché questa splendida tre giorni è finita e si deve tornare a casa. Per quanto stanchi si vorrebbe tanto poter avere un giorno ancora per correre tra questi paesaggi meravigliosi, poter gustare la bella accoglienza degli organizzatori e la maestosità dei luoghi, poter assaporare il clima fresco di alta quota. In un’espressione: gustarsi ancora tale bellezza.