Poniamoci nella mente di un osservatore che una domenica di inizio giugno, nella bella valle di Livigno, abbia visto una strana processione incamminarsi dalla funivia del Mottolino in direzione del lago, poi su nel bosco tagliato dalle piste da sci. Avrà sollevato un po’ la mantellina, scostato l’ombrello riparo dalla pioggia battente, e si sarà chiesto: chi sono questi folli che in maglietta corricchiano nella bufera? Visti i pettorali si sarà ricordato di qualche annuncio che pubblicizzava i campionati italiani di un curioso sport minore lì, nell’estremo lembo d’Italia; magari li avrà scorti correre apparentemente a caso il venerdì, tra le case di Livigno, e da qualche arrugginito ricordo delle scuole medie si sarà fatto un’idea approssimativa della cosa. Avrà visto passare aitanti giovani con il loro pettorale, che si scaldavano elegantemente nelle loro divise colorate; questo gli sarà parso naturale, anche se forse li avrà un po’ compatiti: corpi snelli forti decisi, atleti veri da ammirare. Si sarà detto: poveretti, ma sono obbligati ad andare in partenza perché hanno in palio qualcosa. Ma quasi subito avrà notato ben altri corpi: anziani, bambini, persone che non c’entrano nulla con l’ideale assoluto di atleta. Li avrà visti passare, anche loro con il loro bel pettorale, con l’andatura ben più modesta e gli sguardi bassi. Sono quelli delle retrovie, che già in partenza sanno di non poter competere realisticamente per una vittoria o almeno un podio. E dove vanno costoro, si sarà chiesto. I fortissimi vanno perché hanno una fetta di gloria da ritagliarsi, allori e applausi, un posto in nazionale. Ma gli altri, i carneadi delle parti basse della classifica, gli abbonati ai minuti di errore, quelli a cui una sola salita spezza le reni senza pietà, perché vanno? Che cosa li induce, ad un dato momento, a levarsi mantelline e abiti caldi, incamminarsi sotto il diluvio pregustandosi due ore di affanno nel bosco spietato? Che cosa li spinge a salire il ripido versante, attendere minuti alla partenza schiaffeggiati dalle intemperie, per poi prendersi altri ceffoni dal dislivello e dalle difficoltà tecniche? Perché non scendono piuttosto nel paese, nelle sue mollezze tentatrici? Perché non si mettono almeno al riparo, invece di gelare nel fango dei valloni o incespicare sulle asprezze del sottobosco?
Questo scenario si cala nel viaggio del mondo orientistico italiano negli estremi lembi della penisola: dopo la trasferta al sud e quella a Cuneo, nell’angolino di nord-ovest, tocca a Livigno ospitare il nuovo weekend di gare nazionali. Il paesino sorge in un’incantevole valle circondata dai confini oltre che dalle sue belle montagne. Si corre molto in quota e gli splendidi paesaggi montani offrono un crescendo di bellezza ed emozioni, che ripagano tutti delle molte ore di viaggio spese per arrivare.
Si inizia con una delle gare più frenetiche e coinvolgenti dell’orienteering: la sprint relay, una gara che unisce la dinamica sveltezza delle sprint, alle difficoltà della partenza in massa e al peso di correre anche per gli altri. Nel bosco l’errore è un gioco lento, quasi ponderato: nasce da premesse che si incamminano da lontano e si ingrandiscono pian piano, lasciandoti anche la possibilità di rimediare. Una piccola deviazione della bussola ha, magari, effetto dopo diversi minuti, quando ti accorgi di essere nel vallone errato o molte curve sotto il punto in cui vorresti essere. Qui, invece, è tutto accelerato e crudele. È questioni di attimi, in genere: stai seguendo l’avversario e sei al gancio, mentre il cuore batte forte e la mente chiede solo riposo, devi scegliere la via in cui girare, riconoscere il piccolo particolare che ti conduce al punto, oppure accorgerti del forking che ti aspetta in agguato, sornione e spietato. È una piccola frazione di tempo, quasi impercettibile sul risultato di gara finale, ed ecco l’errore: un attimo e sei squalificato, o ti infili in qualche vicolo cieco e gli avversari fuggono via. Ogni secondo di gara può portare la dannazione con sé, tanto grave che non c’è redenzione se non sei svelto ad accorgertene, e nella relay con te cadono altre due persone che, magari, quel giorno hanno fatto la gara della vita. Livigno cerca di esaltare questa frenetica lotta contro l’errore, sparpagliando le sue case su un piattone tutto uguale, confusamente mischiando muretti, piccoli prati e case che non offrono alcun appiglio ad una mente che è per metà già impegnata a guardare gli avversari e pregare le gambe di dare il massimo. I punti si ripetono uno dopo l’altro con lo stesso monotono e spietato canovaccio: svolte continue e una confusa ridondanza di particolari volti a smarrire, confondere e condannare.
Dopo l’antipasto urbano, i due giorni successivi si spostano nel bosco, elevando lo spettacolo, fosse solo per la bellezza indescrivibile delle montagne che, attorno, osservano maestose gli atleti. Il passo Eira apre i suoi pratoni ad oltre duemila metri, sotto la mole delle splendide montagne lombarde e svizzere. Ovunque tu volga lo sguardo, esse troneggiano potenti, maestose, incantevoli. L’erta che porta alla partenza toglie il fiato ai concorrenti, sia per la bellezza del panorama attorno, sia per la quota che aggiunge pesantezza e toglie respiro con la sua aria rarefatta. Poco sotto una piccola sella, si attende il via da un lato commossi dalla grandiosa bellezza delle Alpi nel settore dello Stelvio e della Valfurva, dall’altra preoccupati dalle note difficoltà delle praterie di alta quota: parrebbe facile orientarsi negli spazi aperti, ma è una fantasia a cui credono ormai solo gli esordienti, perché negli spazi tutti uguali si celano mille trappole, e non esiste riferimento per disinnescarlo. Così i primi punti sono corsi quasi in ansia, per prendere i giusti riferimenti e non cadere nei tranelli che fin da subito potrebbero costituire una mazzata gravissima. Invece ne esce fuori una gara quasi semplice, durissima fisicamente, ma senza le cattiverie di altre mappe. Il boschetto che porta nel punto più settentrionale, mostra una faccia cattiva all’inizio, preannunciando un fondo lento e un’assoluta avarizia di particolari. Ma non è così: per quanto in costa, si corre bene, almeno per chi ha le forze di scattare a duemila metri, e i particolari alla fine ci sono e conducono gentili al proprio punto. Usciti da questa prima difficoltà, il resto è quasi accademia: prati aspri, da scalare con grande fatica, ma tecnicamente abbordabili, scivolano via punto dopo punto fino al traguardo, dove quasi tutti arrivano con tempi abbastanza bassi.
Il giorno finale, sul ripido costone sopra Livigno, era stato annunciato con toni funerei e drammatici. In pratica c’era tutto: pendenze assassine, discese infide, difficoltà varie, fondo lento. I testimoni oculari narravano di asprezze inenarrabili, dando versioni via via più ansiogene, tanto che si poteva riassumere: sarà una faticaccia e portare la pelle a casa quasi impossibile. A dare maggiore credibilità a queste voci ci si mette pure il meteo con una giornata da tregenda, che prova a sfidare le disgraziate prove di Corno alle Scale. Pronti via e si mette a piovere con forza, sferzando i concorrenti che vanno in partenza e fiaccando ulteriormente il morale in attesa della durissima prova. E qui torniamo allo scenario visto dal nostro ipotetico e stupefatto osservatore. Sconvolto e dubbioso perché non ha potuto vedere quello che è avvenuto dopo, quando la selva ha inghiottito uno dopo gli altri i concorrenti, eroi e comparse.
Dopo pochi punti di bosco, il grosso delle voci filtrate il giorno prima si rivela fake news, o almeno forte esagerazione. Il bosco ha una sua bellezza struggente; la salita c’è, questo non lo nega nessuno, ed è spietata, tanto che all’ennesima tratta diritta su una o due maestre, il tracciatore si prende una sfilza di maledizioni che gli basteranno per qualche anno. Però le asprezze, fatte filtrare per creare un clima di terrore, sono molto ridimensionate. Il terreno è duro, ma lascia correre abbastanza bene, le tratte si susseguono eleganti e abbastanza domabili. A tratti, quando si esce sulle piste da sci e si pesta l’ultima neve, tra la foschia del brutto tempo, fa capolino la splendida vista della valle di Livigno che, per un attimo, risolleva i cuori. Per metà gara si alternano disagevoli corse in costa, in cui si darebbe un occhio per allungare la gamba più a valle, a rampe continue che fanno mormorare, tra i rantoli di fatica, quanto è duro calle salire per l’altrui scale. La quota ci mette del suo a tagliare le gambe, alleandosi con la pioggia che infierisce sui concorrenti. Poi, mentre il maltempo decide di dare un po’ di agio ai miserabili che ha già abbondantemente tormentato, lo scenario cambia. Arrivati in cima, si può soltanto scendere e qui la musica cambia decisamente. Si è improvvisamente più leggeri e il bosco non eccessivamente difficile rende spettacolare il rientro al ritrovo. Ogni atleta, fino al più anziano master, pare tornare bambino, ma uno di quelli dei tempi più antichi, libero di correre lontano dai doveri e dagli scacchi dell’età adulta, guadare torrenti per la via più diritta, sguazzare felice nel fango, rotolare giù dalle discese senza cura del domani.
Ecco perché vanno gli atleti sotto la pioggia; ecco perché disdegnano i ricoveri e le mollezze della cittadina in basso; ecco perché sopportano con gioia due ore di fatica, lo sconforto dell’errore e lo sguardo scocciato dei più forti quando devono deviare per superarli. Nel bosco non entrano le preoccupazioni e gli sconforti della vita di tutti i giorni, gli scontri, gli odi e i dispetti, nel bosco c’è spazio per una sola sconfitta, quella contro i più forti della categoria, che un po’ amarezza la porta, ma nulla in confronto a quelle che attendono fuori. Per due ore ogni concorrente entra in una bolla, lontano dagli affanni, dove le uniche decisioni da prendere sono se deviare a destra o sinistra e le difficoltà si smarriscono di fronte alla bellezza del luogo e al piacere di correre liberi nel bosco. I più forti avranno per soprammercato premi, applausi e soddisfazioni; i carneadi un attimo di sogno reale, in cui gli affanni veri sono messi da parte. Ecco perché vanno gli atleti sotto la pioggia.