L’orienteering torna a casa: due splendide gare in Primiero

La valle di Primiero, una delle culle dell’orienteering italiano, ha il piacere di ospitare il quarto weekend di prove nazionali: una gara sprint e una long, entrambe di Coppa Italia. Piacere per lei, ma anche e soprattutto per i molti atleti giunti qui da ogni parte della penisola. Lo sfondo scenico alle prove, verdi boschi che calano dalla magnificenza delle Pale di San Martino, è tra i migliori desiderabili; a questo si aggiungono decenni di esperienza nell’organizzare eventi di buon livello e arene tutte di altissimo spessore.

Silvia Di Stefano al passaggio in Arena. Per lei un ottimo nono posto in W20 contro avversarie di due o tre anni più grandi e numerose straniere.
Dopo il punto spettacolo, Luigi Giuliani pianifica la strategia per le tratte successive durante il passaggio in Arena.

Per la gara sprint di sabato, gli organizzatori calano subito un asso che pochi hanno a disposizione: la carta di Mezzano è indubbiamente tra le migliori della penisola per questo tipo di competizioni e, anche questa volta, non lascia delusi. L’abitato consiste di un centro di piccole case, sparpagliate sul versante montuoso in modo irregolare, per forma e posizione, tanto che le vie sono più spazi tra le case; attorno a questo sorgono i “quartieri” più periferici, dove gli spazi si allargano, il privato delimita nettamente ciò che è corribile e cosa no, le difficoltà orientistiche si smussano sino ad annullarsi. In quest’ultima parte viene posta la partenza, permettendo agli atleti un avvio sereno, qualche metro dove correre davvero senza il timore che gli errori prendano il sopravvento. I primi punti si snodano in questo modo, con una qualche durezza fisica, ma tutto sommato una certa tranquillità tecnica. È la calma prima della tempesta perché, dopo qualche minuto, si viene proiettati nel reticolo più interno, dove le difficoltà si impennano e ogni passo non calcolato può essere fatale. All’improvviso ti ritrovi stradicciole, passaggi e biforcazioni ovunque; le case, prima quadrate, con i loro bei giardini regolari attorno, assumono d’un tratto forme sempre nuove e angolazioni beffarde; le vie da diritte e precise iniziano a farsi sinuose, si stringono tanto che le scorgi all’ultimo e si sparpagliano in una matassa informe. L’orienteering è uno sport di moderazione: l’assenza di particolari è tremenda, ma l’eccesso non è da meno; se la prima atterrisce, il secondo stordisce e confonde, smarrisce e irride. Punto dopo punto gli atleti avanzano come ciechi, appigliandosi ai pochi riferimenti certi: una fontana qui, un muretto là, un sottopassaggio particolare. Per il resto l’oscurità è per tutti maestra severa, che punisce chi, troppo ardimentoso, azzarda oltre il lecito. Va detto che Mezzano non ha gli estremismi di altre carte: anche nell’aggrovigliato mantiene una sua logica e raramente pone ostacoli netti, come scale o svolte improvvise; per questo è un avversario anche più insidioso: sornione, svela la sua ragnatela incitando a correre comunque, illudendo gli atleti di avere il controllo, quando invece l’errore è dietro l’angolo. Per questo fioccano le squalifiche e i disastri: un attimo prima eri a giocartela tra i primi, poi una leggera disattenzione, uno scarto imprevisto, ed ecco l’errore grave che ti pregiudica tutto. Ancora una volta Mezzano si è mostrata arena difficile da domare, orgogliosa nella sua difficoltà; ancora una volta è stato uno spettacolo.

Nella splendida cornice del Passo Cereda, Alessandro Sala sprinta verso il traguardo in una M20, infarcita di fortissimi atleti stranieri qui per preparare i JWOC.

La domenica si cambia completamente scenario e tipologia di gara. I monti sopra il Passo Cereda calano affilati, alternando aree aperte a boschi rognosi, aggrovigliati anche loro tra continui cambi di colore che non permettono mai di impostare un passo regolare, che confondono e atterriscono. La selva non riesce a replicare le difficoltà al massimo grado: si riempie di massi, ma non ci sono mai i labirinti di roccia dentro cui chi entra è perduto; i cambi di vegetazione sono difficili da leggere, ma una volta compresi sono netti; le linee di pendenza hanno una loro regolarità che, quando i particolari vengono meno atterriscono, ma laddove si concentrano le microforme non infieriscono mai per crudezza. Preso un punto alla volta, il bosco non è mai troppo complesso o cattivo, ma, una lanterna dopo l’altra, si ostina in una sua spietata ferocia: le rive ripide, il sottofondo incerto, rami ovunque che obbligano ad acrobazie, ogni cosa intacca le energie un passo dopo l’altro sino a svuotarle. È un pugile che non sferra mai attacchi mortali, ma sfinisce con una gragnuola di colpi che lentamente porta all’esaurimento, e quando questo sovviene il disastro è bell’e pronto. Oltre al bosco, il tracciatore si è impegnato in un suo crudele gioco: dopo una tratta sul costone, dove ogni passo è compiuto col terrore di perdere quota e mancare l’appuntamento con la stazione, vengono piazzati punti semplici ma con dislivello. Anche questi contribuiscono a ridurre le energie, a spegnere la lucidità e far fioccare gli errori.

Lorenzo Stalio conclude la sua fatica nella long di Passo Cereda.

Man mano che si prosegue nella gara, il cielo si oscura promettendo pioggia, rendendo più cupo anche il bosco, già reso scuro dai massi, dai legni caduti e dai punti più fitti di sterpaglia. A tratti si è soli nella selva crudele ed è allora che il terrore dell’errore si fa più fondo, perché sai che aiuto non ti potrà venire da nessuno; altrove si creano piccoli treni, fragili alleanze temporanee che consentono di avanzare per un po’ più spediti. Ogni passo oggi è letteralmente una conquista, contro le difficoltà tecniche, contro il bosco atro e le asprezze del terreno. Il finale, tutto da correre sui pratoni del passo Cereda, neppure troppo ripidi, sa di liberazione.