In occasione dei settecento anni dalla morte di Dante, l’orienteering si unisce alle celebrazioni con una ricostruzione dal vivo del primo canto dell’Inferno. Non si può sapere se il sommo poeta sia mai salito sul Pian del Cansiglio, ma di sicuro il bosco di Archeton gli avrebbe ricordato alcune tra le migliori atmosfere della cantica infernale. Del resto, l’esordio della sua opera immortale altro non è che una rappresentazione in versi di una gara di orienteering vista da chi rimane in fondo alle classifiche. Metà del cammino di nostra vita, afferma Dante, pertanto doveva essere al termine della sua carriera da ME o, al massimo, in una bella tosta M35. Che poi la selva sia stata aspra e forte e anche oscura non ci sono dubbi, perché oltre ad Archeton pullulano ovunque boschi simili. La diritta via era, naturalmente, smarrita perché nella confusione delle microforme si perdono anche alcuni tra i più forti. Poi il poeta infiora un po’ la storia con la simpatica allegoria delle tre belve, che altro non sono che la mancanza di abilità tecnica, di allenamento e di lucidità. Infine, ben accurata è la descrizione del trenino fatto con il più tecnicamente abile Virgilio per arrivare al traguardo; forse non sarà molto nobile chiudere una gara in questo modo, ma non è detto che chi sa scrivere bene sappia anche orientarsi alla grande.
In ogni modo non si poteva trovare uno scenario migliore per ospitare i campionati italiani middle e staffetta. Quando si parla del Cansiglio, bisogna saper misurare con sapienza le parole per non mancare di rispetto ad una delle più belle arene del mondo. Superbamente ornato da maestose cime candide di neve, il pianoro è un gioiello di rara bellezza. A sinistra, entrando, la soffice faggeta di Vallorch, che pare un fiabesco salone da ballo; a destra la feroce selva di Archeton dove chi vince è campione per sempre. Durante la gara lo speaker ha più volte paragonato questi boschi al Maracanà; cambiando sport, vengono alla mente solo altri esempi di massime arene, luoghi dove una vittoria vale una carriera. Ma il bello dell’orienteering, non ci stancheremo mai di ripeterlo, è che consente a tutti di calcare quelle scene, di giocarsela con i grandi campioni, anche qui al Cansiglio, nel tempio dell’orienteering.
Gli organizzatori hanno avuto l’idea di far partire i concorrenti subito fuori dalla selva, come a dare loro l’opportunità di trarsi indietro se avessero voluto; perché una volta entrati, abbandonato il primo sentiero, nessuno avrebbe più potuto difenderli contro le prepotenze del bosco. Basta uno sguardo alla mappa per farsi assalire da un senso di impotenza e terrore: le linee si attorcigliano in una matassa informe che pare concepita da un genio o da un pazzo; ovunque si sparpagliano le linee scure dei massi che creano maggiore confusione, mentre ci si afferra alle sottili linee delle depressioni che sembrano comparire in ogni luogo, gettando scompiglio nelle decisioni. In teoria, nell’orienteering, si dovrebbe costruire una mappa mentale che associ la realtà alla simbologia della mappa, ma qui bisogna davvero avere una mente superiore per riuscirci, soprattutto se si incespica tra i massi, che sono i veri signori del bosco, o si trotterella in bilico tra due doline su sottili cenge traditrici.
Il risultato è lo sparpaglio completo dei concorrenti. Sin dal primo punto li vedi, dai più forti ai più scarsi, vagare tra collinette e buche, negli occhi di entrambi la medesima paura di aver sbagliato. Trovi il master che si arrampica imprecando su una china sassosa, il ragazzino che incespica scendendo in una dolina e l’élite guardarsi intorno dubbioso. Le certezze di ognuno, oggi, vengono messe in un frullatore e spremute senza pietà. Un piccolo errore, un’approssimazione scorretta e ci si ritrova in una distesa di informi collinette sassose, tutte uguali, che non danno punti di appoggio: ovunque senti borbottare nei vari dialetti frasi di rabbia o di resa. La selva è un dio spietato che richiede sempre nuove vittime a cui strappa, con gioia crudele, minuti, speranze e sicurezze. Sotto un simile tallone di acciaio ognuno reagisce in maniera diversa. Taluni, ma sono pochi, soccombono e si avviano mesti verso il ritiro. Altri provano ad opporre una commovente logica errata all’inappellabilità della sorte, intestardendosi con orgoglio sull’esattezza della propria scelta e accusando il bosco di essere mutato in maniera ingannatrice. I più, invece, si prendono in pieno i ceffoni della selva crudele, ma non demordono. Punto dopo punto, dolina dopo dolina, proseguono impavidi, mentre i minuti scivolano via e le forze se ne vanno; oppongono la propria umana debolezza all’asprezza delle erte sassose; stringono i denti in cerca di un sentiero o un qualche oggetto che dia loro per un attimo un riferimento, la forza di andare avanti e trovare il punto successivo. Poi, punzonato quello, la cruda lotta ricomincia, contro un nuovo versante da scalare, contro un enigma da risolvere. E così sino alla fine; lottano tutti con il medesimo accanimento siano élite in lotta per il titolo o semplici comparse che vogliono solo chiudere la gara.
Nel bosco accadono cose che non avrei mai creduto. La selva ha veduto élite chiedere suggerimenti a semplici comparse. Ha veduto burberi master farsi loquaci nel chiedere o dare aiuto. Ha veduto comporsi disperate alleanze tra avversari, treni a cui appigliarsi per chiudere la gara con dignità. Tante cose ha visto in questo weekend la selva di Archeton, anime disperate mendicare aiuto, sicurezze vacillare, concorrenti annaspare. Tanto ha veduto e sentito, cercando di piegare un concorrente dopo l’altro nel suo gioco crudele, ma per uno che cedeva altri dieci proseguivano con coraggio, anzi raddoppiavano gli sforzi. Ha ottenuto il suo tributo di minuti persi per errori, ma non ha piegato gli spiriti dei concorrenti, felici di aver chiuso questa gara e già pronti alla prossima.
In tutto questo scenario si è calata anche la prova a squadre. La staffetta unisce alle difficoltà della gara, il peso di dover correre per gli altri. Ogni errore, ogni secondo perso è un fardello che si carica sulle spalle dei compagni e alla frustrazione dell’errore si aggiunge il senso di colpa. Questo contando che nell’orienteering l’errore di un attimo può pregiudicare tutto e condurre dal trionfo alla rovina. Emblematica, in questo caso, è stata la giornata delle ragazze Besanesi che meriterebbe una penna migliore di quella che scrive per essere raccontata. Prime al termine di una gara fantastica, pazzesca, meravigliosa, si trovano fuori dai giochi per l’appannamento di un attimo. Alle volte il successo o la rovina si decide in una frazione di secondo, e non ci è dato di sapere prima quale possa essere; quell’attimo chiede una scelta ben precisa, che in altre condizioni sapremmo prendere senza difficoltà. Ma l’essere umano è tanto meraviglioso proprio perché alle volte può sbagliare, ed è questa caratteristica che alle volte ci condanna: non siamo macchine, non è possibile prevedere tutto, così un leggero allentamento di pressione può mutarci il sorriso in lacrime. Siamo stati perfetti per tutto il resto del tempo, ma è un secondo di cedimento che ci condanna. Gli antichi Greci dicevano che l’invidia degli dei porta gli uomini dal successo alla rovina; ecco, in casi come questo pare che sia vero. Nello sport un secondo può essere fatale, ed è proprio la sua magia e la sua dannazione; ma un secondo non può cancellare due ore di cui essere fiere. Perché uscire per prime dal bosco di Archeton è una patente di nobiltà sincera, che nulla può cancellare.
Ed è altrettanto nobile proseguire lo stesso quando la gara è finita al punto uno, lottare contro un bosco di forze superiori, con coraggio e passione; e sono stati in molti a potersi inorgoglire di aver domato questa selva selvaggia. Nella modernità siamo ossessionati dal tempo, che in effetti in gara è fondamentale per separare il vincitore dagli sconfitti, ma ad Archeton c’è una dimensione antica, dove anche solo tentare e non mollare è già una vittoria. Che si sia usciti in quaranta minuti o in centoquaranta, semplicemente uscire è già un grande successo.