Il primo weekend di gare nazionali del 2021 si pone esattamente un anno dopo il periodo più toccante della pandemia, quando si raggiunse il primo culmine e l’emozione era al massimo. In quel momento i primi sciocchi slogan di illusione erano stati spazzati via, mentre la commozione fu all’apice. Poi si impose un clima di abitudine, quindi di rassegnazione, che portò al desiderio di non pensare e l’illusione di andare oltre. Ecco, le gare sprint del vicentino si sono disputate in questo clima. Ci si è appigliati al pensiero che si potesse correre normalmente; ci si è ancorati a vecchie abitudini per credere che si potesse tornare al vecchio felice passato. Al tepore di un bel sole di marzo, gli atleti si scaldavano lungo le vie urbane fingendo di pensare soltanto alla gara. Presso la partenza i solerti volontari chiamavano i minuti, mentre l’orologio del via ticchettava il suo countdown. Ci si incamminava verso il via studiando i volti degli avversari, cercando la concentrazione e ripassando le regole per una sprint perfetta.
Eppure, fuori dalla bolla della gara era appostata la tragedia della zona rossa. Nei volti dei radi passanti non c’era la consueta, buffa curiosità di vedere così tanta gente correre apparentemente del tutto a caso. Non si udivano gli ingenui commenti, del tipo: “sarà una caccia al tesoro”, o storpiare la parola orienteering nei modi più impensati. Nei loro sguardi si mischiavano sentimenti diversi, nessuno di essi confortante: dall’invidia verso chi può legittimamente sfuggire al lockdown, si passava al mesto rimpianto di tempi migliori sino alla malcelata rabbia. I più tacevano, forse indispettiti, forse commossi che qualcosa fosse ancora possibile, forse solo rassegnati; altri sbuffavano, alcuni sfogavano la loro rabbia resa cieca e violenta forse da qualche perdita, forse soltanto dal clima di generale paura. Per uno sport sempre molto defilato come l’orienteering fa male sentire parole come “assassino” o “vergogna” gridate ai suoi atleti.
Nonostante tutto, questo weekend di gare, prescindendo dai risultati agonistici, deve essere preso come una speranza; piccola, vana, sciocca, ma pur sempre una speranza nel mare di comprensibile dolore e odio rassegnato. In questi tempi duri lo sport sta segnando per molti una modalità di svago, illusione per qualche minuto che non ci siano soltanto paura e sofferenza e nubi fosche sul futuro; tiene compagnia, ci insegna che con l’impegno si può essere migliori, fa quello che lo sport dovrebbe fare anche nei tempi normali, in cui sarebbe bello potersi ricordare di questi weekend in cui abbiamo strappato venti minuti di gara al dolore della Storia.
Il contesto così peculiare ha permesso di fornire un alone poetico a due gare, per il resto, abbastanza modeste. La collina di San Fermo a Lonigo, paesone della bassa vicentina, offre un nuovo esempio di sprint non urbana che si sta sempre più imponendo negli ultimi anni. Il canovaccio è quella di una gara fisica senza difficoltà soverchianti, dove gli atleti sono sballottati su è giù dai ripidi versanti della montagnetta, solcata da ampi sentieri. Il primo tratto attorno alla villa ha ancora un’impronta di sprint urbana classica, ma dal primo volo verso il fondovalle si capisce subito che i padroni di giornata sono i versanti su cui arrancare in salita, o scivolare nelle discese. Per quindici-venti minuti il bosco e i vigneti avvolgono i concorrenti nell’illusione di normalità. Come in passato ci sono i campioni che zampettano irresistibili sugli ampi dislivelli, e ci sono le comparse che annaspano più indietro. Ci si lascia scivolare tra gli alberi del parco, felici di quel contatto con la natura che, in un anno di reclusione tra quattro mura, abbiamo perso.
La domenica la cittadina di Montecchio Maggiore potrebbe suggerire a chi scrive facili citazioni letterarie, visto che tal nome ha fornito personaggi e versi di almeno due opere immortali. Ma non c’è alcuna tragedia nello sviluppo di questa gara. Paesone di campagna, dalle ampie piazzette residenziali, Montecchio fatica a fornire altro che una gara velocissima e piatta, dove i più forti schizzano a velocità supersoniche sotto i mesti sguardi dei pochi passanti. Gli ampi rettilinei forniscono tutto il tempo per preparare le rare scelte e bisogna davvero impegnarsi per commettere un errore. Ma come per il giorno prima, anche in questa gara conta fino ad un certo punto la bellezza estetica del tracciato; ha poco peso se i mesi del lockdown ti inchiodano ad un ritmo che avresti considerato imbarazzante ai bei tempi andati. Anche oggi per alcuni minuti ci è concesso di ricordare quello che eravamo e fare ciò che un anno fa era negato. Nelle ristrettezze si impara ad accontentarsi e si è paghi delle poche gioie.
Ad aggiungere spessore alla due giorni, ha contribuito anche la presenza di alcuni tra i più notevoli campioni di questo sport. Mischiati ai più modesti mestieranti italiani, si muovono i fortissimi svizzeri, norvegesi, francesi. Li noti subito, divise nazionali a parte; sono quelli che hanno il fisico migliore, come se neppure l’avessero vissuta la quarantena; già solo a scaldarsi trasudano superiorità e, per chi ha avuto l’avventura, di vederseli sfilare accanto in gara è difficile trovare parole per descrivere il distacco che cresce ad ogni passo. Eppure, si potevano anche non notare; quando tu, povero carneade, li sfiori nel riscaldamento, loro non ti notano, questo è ovvio, ma non ti allontanano con sguardi scocciati o parole supponenti. In partenza si allineano disciplinati, pazienti. Nel parcheggio sembrano atleti come gli altri, fisico superiore a parte, per quanto a casa abbiano le bacheche colme di medaglie mondiali e non di coppette dell’oratorio. Poter figurare nella stessa starting list con loro, miti discreti e educati campioni, è un onore da ricordare con gioia. Vederli in azione e correrci contro un privilegio di questo meraviglioso sport; un privilegio che, altrove, pochi altri atleti di basso livello possono avere.