Esistono orientisti che corrono potenti e leggeri: fendono le curve con grazia, divorano le salite veloci e basta loro uno sguardo alla mappa affinché il piano di azione si dipani preciso, sicuro. Poi ne esistono altri sorretti solo da una passione che le mille sconfitte non ha piegato: sbuffano goffi sulle scalinate, annaspano lenti sulle tratte da correre e, quando la tecnica sale di livello, si smarriscono in labirinti senza uscita. Ecco, sono sicuro che siano stati questi ultimi quelli che la statua di Leopardi, nella sua Recanati, ha guardato con maggiore vicinanza il giorno della sprint. Infatti, se il deforme e infelice poeta poteva avere affinità con qualcuno degli orientisti, venuti nelle Marche per una tre giorni di grandi sfide, non potevano essere gli élite forti e maestosi, abituati a passare tra gli sguardi di ammirazione; no, potevano essere solo gli habitué delle posizioni di rincalzo, che, magari, hanno talento in qualche altro campo, ma una volta inforcata la bussola spariscono agli occhi dei più, o al massimo ricevono qualche sorriso di compassione e scherno.
Le gare marchigiane hanno messo in scena tre giornate dall’ambientazione completamente diversa: prima il fascino di un borgo come Recanati, poi le difficoltà tecniche di Ancona, città portuale dai mille volti, infine un magnifico bosco mutevole come quello delle Cesane. Le bellezze artistiche e naturali di quella regione sono, però, state offuscate da una serie di passi falsi dell’organizzazione, accaduti nei momenti peggiori, che hanno rovinato la magia di gare per il resto spettacolari, introducendo elementi di polemica e recriminazione che non ci volevano davvero.
Peccato, perché l’esordio del sabato era stata magia pura. L’area di riscaldamento valeva da sola il viaggio: l’occhio dell’atleta poteva spaziare sulle dolci colline marchigiane punteggiate di borghi e, più in là, il mare così azzurro da confondersi col cielo, e il monte Conero sullo sfondo, qua dolce e arrotondato, là affilato in splendide scogliere. I versi dell’”Infinito” o di “A Silvia” sembravano ancora risuonare nel fresco vento che accarezzava Recanati; del resto, con un simile palcoscenico, un poeta di talento come Leopardi non poteva che immaginare capolavori. I pensieri poetici, però, durano poco, mentre il bip del cronometro chiama alla partenza ed è bene che spariscano perché la prima parte della gara mette subito a dura prova nel parco di Villa Colloredo. Non aiuta certo la mappa stampata in maniera un po’ approssimativa, ma lo zigzag tra le siepi che il guardo escludono e il fiorire di punti mietono vittime eccellenti. Si risale in paese e, dopo una tratta piuttosto facile, ritorna il labirinto di case tipiche di un borgo medioevale, così contorto che sembra essere fatto apposta per l’orienteering. Scalette, vicoli e piazzette si mescolano in un caleidoscopio che non è facile imbrigliare. Una distrazione di un attimo obbliga magari ad un dislivello in più che infierisce su gambe già provate. Poi si ritorna nella piazza centrale, a sprintare sotto lo sguardo di Leopardi, che, come si diceva, avrà sicuramente dedicato gli sguardi più benevoli a coloro, che persa la gara al punto uno, hanno insistito nell’andare avanti, umili come l’odorata ginestra della sua ultima grande poesia.
Dopo il sabato nel villaggio, la domenica non porta certo riposo e quiete perché Ancona ha in serbo solo fatiche per gli orientisti. Sia i vinti impegnati nella gara di contorno, sia i forti che si sono giocati il campionato italiano knock-out, hanno dovuto sudare le fatidiche sette camicie per uscire al meglio dal dedalo di viuzze della città portuale. Sono le scale le vere padrone del luogo. Sorgono ovunque; lunghe, brevi, strette, ampie, tanto che, come dichiarato dallo speaker, sembra di essere persi in un’assurda incisione di Escher. Gradino dopo gradino tagliano le gambe in salita e impediscono la lettura in discesa. Solo la piazza dell’arrivo offre qualche metro di piano, per il resto è un susseguirsi di scalate e picchiate. In questo contesto si gioca la knock-out, che tra i vari format dell’orienteering è uno dei più spettacolari, perché mette in scena duelli degni di Omero, che il trascinante commento dello speaker Stefano Galletti ha reso più vivido nei cuori dei presenti. Del resto, il gesto del più forte è quasi vano se non c’è qualcuno che lo racconti. E per la narrazione, nel contesto della knock-out, davvero gli spunti non mancano. Il minuto di attesa, nel gazebo della partenza, è una sfida di nervi: intorno percepisci gli avversari, scorgi per qualche istante i loro visi che cercano di mascherare la tensione, i muscoli guizzano nell’attesa del movimento, senti la tensione salire e sai che non deve prendere il controllo. Al via si scatena l’inferno, con i sei contendenti che cercano di prendere la testa ed è quasi spalla a spalla. Si cerca frenetici il punto sulla mappa, un occhio che controlla gli avversari che cercano di scappare. Sono minuti in apnea, dove ogni centimetro va limato per guadagnare un secondo o una stilla di energia che può fare la differenza tra la sconfitta e la vittoria. I punti si susseguono rapidi, le scelte vanno prese in un attimo e ogni volta è un azzardo: il tempo per riflettere, dubitare, meditare viene spazzato via come prodromo per la sconfitta certa. Gli avversari sono con te, li vedi e sui loro volti cerchi disperatamente un segno di cedimento, ma le loro gambe non mollano mentre le tue iniziano a crollare. Entri nell’arena, senti il tifo ruggire ora il tuo nome, ora quello dell’avversario; i polmoni scoppiano, ma non puoi mollare adesso che sei davanti a tutti. Ed è lì che si accendono i duelli, gli sprint uno contro uno che esaltano la folla dove una breve esitazione ti innalza sugli altari o ti getta nella polvere.
Il weekend ad alta velocità viene seguito da un lunedì in bosco, dove si smettono i format moderni per tornare nella tradizione. Il bosco delle Cesane si presenta sornione, mischiando nelle sue sezioni mille trucchi e facce diverse. L’inizio è arcigno, tra i valloni e la vegetazione fitta; opprime i più deboli e cela e confonde nel garbuglio dei suoi verdi. Poi si apre, in una landa piatta, uniforme, molto veloce; i particolari scemano o si raggruppano in maniera subdola. L’orientista si appiglia alla bussola, fidando in essa sola per mantenere la linea e raggranellare secondi di vantaggio. La parte finale, su una costa infida, leggermente pendente, che curva insidiosa, non riduce la tecnicità di una gara difficile, da gestire concentrati e sicuri. Non è più terra per la velocità estrema, la frenetica sfida cittadina. Il bosco, come sempre, riconduce ad una memoria antica, di fatica lenta e continua, che non si esaurisce nel dibattersi di pochi minuti; ma non è certo un giudice meno severo dei labirinti dei borghi e delle scalette, infierisce su chi sbaglia e non rende la vita facile a chi è incerto: incorona chi punto dopo punto supera ogni esame e rimanda impietoso gli impreparati e i deboli.